martedì 9 febbraio 2016

Specchio delle mie brame

Lekythos attica a fig.rosse del Frankfurt Acorn Painter, 420-400 a.C.
(J.Paul Getty Museum, Los Angeles)

Esplorando l’immaginario antico, andando per musei o navigando nel web, ti sarai forse imbattuto in certe figure femminili rappresentate sulla ceramica dipinta.
Donne sedute, stanti o in movimento all’interno di uno spazio chiuso (definibile come tale perché spesso contrassegnato da una o più colonne).
Possono recare degli oggetti in mano, ben leggibili: uno specchio, una boccettina, una cassettina…


'Scene di gineceo'?

Queste sono di solito definite 'scene di gineceo', quadretti cioè ispirati alla vita quotidiana dell’antica Grecia. Oppure, sulla scia della recente (and very trendy) Gender Archaeology, sono chiamate ‘scene di genere’, perché appunto legate all’universo femminile. 
O almeno così si ritiene.


Ma sono davvero soltanto scene 'realistiche’? 
Oppure è necessario andare oltre quella che è la semplice descrizione di una scena e il suo primo livello di lettura?

In una società in cui le immagini parlavano ai loro fruitori in modo molto più chiaro ed eloquente di quanto non accada a noi, sottoposti a bombardamenti quotidiani di stimoli visivi,  gli ‘oggetti’ fisici erano utilizzati come  efficaci media di idee, messaggi e, in alcuni contesti, di vera e propria propaganda

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Vasi dipinti, statue, rilievi in terracotta, stele funerarie, monete e poi, più tardi, i grandi fregi di età romano-imperiale erano dei prodotti dotati di visibilità e accessibilità da parte di ampie committenze.



Specchio in bronzo, 460 a.C. ca 
(The Walters Art Museum, Baltimore)

Lo specchio simbolo della charis

Lo specchio è, sa va sans dire, un attributo che dal lontano passato ad oggi è rimasto pressochè immutato.

Per limitarci alla cultura dell’antica Grecia, la ceramica attica come pure quelle di produzione italiota e siceliota abbondano di figurine con lo specchio in mano: donne in atto di specchiarsi oppure lo specchio come oggetto appeso ad una parete, a definire lo spazio del gineceo ed evocare la cura del corpo, dei capelli e dell’abbigliamento.

Strumento irrinunciabile della toeletta, lo specchio (katoptron) è un simbolo profondamente radicato nell’immaginario collettivo in riferimento alla bellezza e alla grazia femminile (charis). 

Bellezza ed eros, un binomio inscindibile 

Una lunga tradizione poetica celebra i motivi della bellezza e del potere seduttivo come strumenti finalizzati all’unione matrimoniale e alla procreazione dei figli.
Già nell'Inno omerico ad Afrodite, il poeta cantava: 

… le Ore la vestirono con vesti divine, - sul capo immortale posero una ben lavorata corona, - bella, d’oro, e ai lobi traforati – fiori di oricalco ed oro prezioso; intorno al delicato collo ed al petto fulgente l’adornarono coi monili d’oro … al vederla … ognuno desiderava che fosse sua legittima sposa …” 
(Inn. Om., Ven., 5 ss.)

Ma anche Esiodo non era da meno: Pandora è splendidamente preparata 
… perché le donne preziosamente adornate convincono l’uomo all’amore…
 (HES., Th., 570 ss.)

Queste figurine femminili sono quindi spose, in attesa di incontrare il loro uomo.

Ma si tratta soltanto di una ‘preparazione’ all’amore, legittima vanità femminile?

La dimensione in cui si ‘muovono’ questi soggetti non è soltanto privata, ma ha una portata sociale  tutt’altro che banale. 
Hydria apula a fig.rosse, 360-350 a.C.
(Collez. Intesa S. Paolo)

www.culturaitalia.it
Il richiamo è ai 'riti di passaggio', le tappe iniziatiche della vita femminile che segnano la trasformazione della parthenos (fanciulla) in nymphê (sposa) e quindi in gynê (donna) e mêter (madre). Soltanto attraverso lo status di moglie e madre di cittadini legittimi si attua l’integrazione sociale della donna greca all’interno della collettività.

Anche la forma dei vasi è significativa per comprendere la semantica delle scene raffigurate. L’hydria era destinata a contenere l’acqua, verosimilmente in connessione con i bagni rituali che le spose compivano prima delle nozze. Anche il lebes gamikos era utilizzato durante le cerimonie nuziali.
Lebes gamikos attico, 420 a.C. ca (Metropolitan Museum of Art, New York)
www.metmuseum.org

Ma non finisce qui.


Lo specchio e la dea della città

Uno straordinario repertorio di immagini, ancora pressochè sconosciuto ai non addetti ai lavori, è quello espresso sulle monete
Osserva questa monetina: si tratta di una frazione di dracma (trihemiobolo) dal diametro di soli 14 mm!
Su questo piccolo tondello, coniato in Tessaglia, a Larissa, ritroviamo lo stesso soggetto rappresentato nel più ampio campo narrativo dei vasi. 
Trihemiobolo d'argento di Larissa, 450-400 a.C.
(Triton XV BCD Thessaly Virtual Catalog n. 362.2)

La figura appare seduta, su una sedia con spalliera e gambe ricurve (klismos),  con lo specchio in una mano e l’altra sollevata ad aggiustarsi i capelli in un gesto lezioso. Ben visibili sono anche gli orecchini con pendente, ornamento e, al tempo stesso, attributo della nymphê-sposa.
Lo spazio limitato non limita certo le possibilità rappresentative.

La differenza tra vaso e moneta non è comunque limitata alle dimensioni del supporto.
Diversa è infatti la natura e  la destinazione d’uso della moneta rispetto a quelle del vaso. 
Quest’ultimo è un prodotto di bottega artigianale, quindi  è un manufatto ‘privato’, mentre la moneta è un documento di Stato, la cui ‘validità’ è garantita dalle immagini (tipi) impresse sul metallo dall’autorità emittente. 

Le immagini apposte sui vari supporti non erano certo frutto d'ispirazione estemporanea da parte dell’artigiano/artista/incisore. Tutte le iconografie erano selezionate sulla base di determinati criteri e, a maggior ragione, lo erano le immagini presenti sulle monete.

La figura femminile con specchio rappresentata sulla monetina di Larissa, non è soltanto ‘sposa’, modello di una società dai ruoli precostituiti. 
C’è infatti un altro dettaglio che connota il tipo monetale, ovvero l’iscrizione (legenda) che, in questi casi, è proprio LARISA. Si tratta quindi del nome che identifica il soggetto rappresentato come personificazione omonima della città (la c.d. 'ninfa eponima'), dea dalla complessa fisionomia. 
Si sa, d'altra parte: la Città è donna!

Il riconoscimento di questa sua particolare natura ci aiuta ad accedere ad un livello di significato più profondo e a ricostruire almeno un frammento del complesso puzzle dell’immaginario antico.


Lo specchio metafora del 'vedere oltre'

La superficie riflettente dello specchio, per la sua proprietà di rimandare l'immagine in modo freddo e imparziale, è metafora di una conoscenza che va al di là dell'apparenza. La dea della città di Larissa ha innanzitutto il potere di ‘andare oltre’, di accedere ad un mondo 'altro' e di prevedere il futuro.
C'è di più.

In quanto attributo della personificazione della città, lo specchio può alludere alla collettività che si riflette, cioè si riconosce nella sua rappresentante, la divinità che incarna la città stessa. La ninfa eponima è emblema della coesione sociale e politica della città e quindi della sua forza.


L’astrazione del simbolo: lo 'specchio di Venere'

La fortuna concettuale e figurativa del nesso specchio-donna nel corso dei secoli è storia nota su cui si sono versati fiumi di inchiostro... e di post (ad esempio, vedi didatticarte).
Ma è senz’altro da segnalare ancora un’altra immagine, tuttora universalmente riconosciuta come simbolo biologico del genere femminile: un cerchio sormontante una croce, il cosiddetto “specchio di Venere”, opposto all’”arco di Apollo” che denota l’elemento maschile.


Si tratta di un simbolo adottato in tutti i settori della scienza, dalla biologia all'astronomia (per indicare il pianeta Venere) e che conserva nella forma e nella denominazione il ricordo di un antico immaginario.




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